La santità della Chiesa (16): La virtù d'umiltà

Fonte: FSSPX Attualità

Ecce ancilla Domini

Secondo un paradosso ripreso da diversi predicatori, «in paradiso ci sono tutti i peccati, eccetto l’orgoglio; all’inferno tutte le virtù, eccetto l’umiltà». Per quanto paradossale e parenetico, questo apoftegma è ben fondato sulle parole evangeliche: Gesù Cristo ci ha chiesto di imitarlo nella sua umiltà (Mt 11, 29), e si è offerto in esempio nell’episodio della lavanda dei piedi (Giov 13, 1-15).

L’umiltà non è solo necessaria ad ottenere il perdono dei peccati, ma a crescere nella santità, ed è anzi la condizione di un’autentica crescita spirituale, senza il pericolo di vedere tutto guastato dalla superbia, che ha separato gli angeli ribelli e gli uomini da Dio. Allo stesso modo, è l’umiltà della Vergine ad aver intrapreso l’opera della Redenzione, che è consistita proprio nello svuotamento (exinanitio) di Nostro Signore Gesù Cristo, secondo le parole di san Paolo (Fil 2, 7).

Ma che virtù è l’umiltà? A cosa la possiamo ricollegare? Per san Bernardo è una perfetta conoscenza di sé, per la quale l’uomo si stima vile. Una tale conoscenza è virtù proprio in quanto si riporta a veracità e giustizia. Giustizia è attribuire ogni bene al suo vero principio ed autore, che è solo Dio, cui spetta ogni onore e gloria.

L’umiltà virtù propriamente cristiana

Apologeticamente parlando, è virtù propriamente cristiana, perché sconosciuta al mondo pagano. Nessun filosofo antico, per quante acute considerazioni abbia potuto fare sulle virtù, ha mai annumerato tra di esse l’umiltà.

Vi è infatti un legame profondo tra umiltà ed Incarnazione del Verbo, come dimostra san Paolo nella citata lettera ai Filippesi. Humilitas deriva proprio da humus, terra, quella terra da cui fu tratto l’uomo dal principio, e sulla quale il Figlio di Dio scelse di incarnarsi prendendo quella stessa natura umana che dal fango veniva.

Solo l’umiltà permette di capire la logica evangelica e di praticare senza inganno le virtù, come dono del Redentore, e non come opera nostra. Il Vangelo mette continuamente in guardia da una pratica vana delle virtù, come era quella degli scribi e dei farisei, viziata dalla superbia; e invita continuamente al nascondimento e al considerarsi insufficienti, rimettendo tutto il bene a Dio: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 7, 10).

San Tommaso «Nell’uomo si possono considerare due cose, cioè ciò che è di Dio e ciò che è dell’uomo. Dell’uomo è tutto ciò che si riferisce al difetto; ma di Dio è tutto ciò che riguarda la salvezza e la perfezione» (IIa IIae q. 61 art. 3).

L’umiltà virtù cattolica

La Chiesa Romana, nella sua forma sociale voluta dal Cristo, è luogo dove la virtù di umiltà nei santi è costantemente favorita e resa possibile. Questo proprio perché la natura dell’autorità nella società ecclesiastica è tale che, in ogni rapporto esteriore, essa primeggia sulla virtù e sulla santità.

Può sembrare uno strano paradosso, ma è così che il Cristo ha fondato la sua Chiesa. I rapporti gerarchici non sono fondati sul grado di virtù o di grazia, ma su qualcosa che è loro anteriore: sulla capacità di conferire la grazia (cf. Suppl. q. 34 art. 1 ad 3um). In questo modo la santità e anche le grazie gratis datae rimangono sottomesse al controllo e alla continua verifica dell’autorità, evitando il pericolo della superbia. Sottomettendo su questa terra la santità invisibile a un ordine visibile, la Chiesa Romana si fa garante e scudo dell’autenticità dei suoi santi.

Anche quando li sostiene durante la loro vita, come è capitato a molti santi che dalla Chiesa hanno ricevuto credito e onori e cariche, la gerarchia visibile impedisce al santo di esaltarsi per i propri invisibili meriti: egli potrà sempre rimettersi sinceramente al proprio ruolo quando esercita l’autorità o riscuote il credito che i fedeli ripongono in lui, continuando a non vedere in se stesso che uno strumento inutile.

Si conosce bene l’episodio di san Filippo Neri mandato dal Papa a verificare la santità di una monaca, che godeva grande fama di mistica. Arrivato al monastero, chiese subito di parlare con lei, la quale, appena scesa in parlatorio, con un profondo inchino, disse: «In che posso servirla?»

Il Santo, che stava comodamente sdraiato sulla poltrona, senza neppure rispondere al saluto, le porse il suo piede dicendo: «Prima di tutto, Reverenda Madre, la pregherei di togliermi queste scarpe infangate e poi di pulirmele per bene».

La monachella si tirò indietro inorridita e, con parole molto risentite, fece le sue rimostranze contro un modo di procedere così villano, dicendo: «Mi meraviglio come voi vi permettete di farmi simili proposte»; san Filippo tacque e alzatosi tranquillamente uscì dal convento per ritornare a casa, riferendo al Papa che a quella “santa” mancava la virtù fondamentale.

Umiltà e prossimo

Abbiamo detto che umiltà è riconoscere ciò che si è davanti a Dio. Ma perché sia autentica, l’umiltà si deve verificare nei riguardi del prossimo. Sarebbe troppo facile dichiararsi piccoli davanti a Dio ma superiori al prossimo. Abbiamo visto come Nostro Signore abbia insistito sul ritenersi (sinceramente e non per commedia) i più piccoli ed i servi di tutti.

Sant’Antonio Abate seppe per ispirazione divina che viveva ad Alessandria un uomo più santo di lui, e volle andare a conoscerlo per potersi perfezionare con il suo esempio. Questi era un ciabattino, che viveva una vita semplice di lavoro e preghiera, e dava una parte dei suoi beni in opere buone. Sant’Antonio, che aveva tante opere buone ed aveva lasciato tutti i suoi beni, cercava di capire quale fosse il segreto di quell’uomo, che apparentemente viveva una vita cristiana ordinaria in una città piena di occasioni di peccato, dalle quali il santo era fuggito.

Interrogandolo, alla fine sant’Antonio sentì il ciabattino dire questa frase: «Non faccio niente di speciale. Soltanto, mentre lavoro guardo la gente che passa per la strada e dico dentro di me: Signore, fa’ che tutti siano salvati. Io, io solo mi perderò».

Umiltà e amore della croce

Chi sa di essere peccatore sa di meritare la croce, sa di voler seguire Gesù Cristo in quella via, e quindi desidera le umiliazioni, dalle quali nasce l’umiltà autentica. Si può essere considerati nel mondo ed esser santi, ma non si può voler essere considerati nel mondo ed esser santi.

Questo è il senso dei gradi di umiltà degli esercizi spirituali di sant’Ignazio, per i quali il massimo dell’umiltà consiste proprio in questa preferenza interiore per la croce, che in un certo modo supera la stessa indifferenza circa i mezzi di salvezza espressa nel principio e fondamento: se siamo pronti a prendere i mezzi che Dio ci assegna, non possiamo interiormente non preferire gli obbrobri agli onori.

Per concludere su questo tema e come ultimo pensiero di questa serie di articoli, ci si lasci riportare per intero l’episodio di san Francesco sulla perfetta letizia. Se riuscissimo a fare interiormente nostro tutto ciò che emerge da questo esempio, non avremmo più bisogno di alcun articolo sulla santità, né di pie considerazioni, ma avremmo davvero raggiunto quel desiderio di abbracciare la croce al quale il Salvatore ci spinge con il suo esempio.

Il Santo di Assisi, viaggiando con frate Leone, incomincia a dire che in nessun successo, fosse anche spirituale o di evangelizzazione, consiste la “perfetta letizia”. Dopo due miglia di questi discorsi, su invito di frate Leone, san Francesco finisce per rivelare quale sia quella “perfetta letizia che ogni cristiano dovrebbe profondamente desiderare, nello spirito della nuova legge delle beatitudini.

«Quando noi saremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo alla porta; e il portinaio verrà adirato e dirà: “Chi siete voi?”, e noi diremo: “Noi siamo due de' vostri Frati”. E colui dirà: “Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via”; e non ci aprirà, e faracci star di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e con la fame insino alla notte; allora se noi tanta ingiura e tanta crudeltate sosterremo pazientemente senza turbarsene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia.

E se noi perseveriamo picchiando, e egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate, dicendo: “Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete né albergherete”. Se noi questo sosterremo con pazienza e con allegrezza e con amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia.

E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci dentro; e quello più scandalizzato dirà: “Costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come sono degni”; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto e piglieracci per lo cappuccio e getteracci in terra e involgeracci nella neve, e batteracci nodo a nodo con quello bastone: se noi tutto questo sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia.

E però odi la conclusione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e disagi. Imperocché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perché non sono nostri, ma di Dio; onde dice l'Apostolo: “Che hai tu, che tu non abbi da Dio?”. Ma nella croce della tribolazione ben ci possiamo gloriare, perocché questo è nostro; e perciò dice l’Apostolo: “Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del Nostro Signor Gesù Cristo”»